Nelle ultime settimane, le tensioni tra l’ex presidente Donald Trump e il presidente della Federal Reserve Jerome Powell sono riemerse con forza. Trump, da sempre critico nei confronti dell’operato della banca centrale, ha recentemente lasciato intendere, in ambienti privati, la possibilità di un licenziamento imminente di Powell. Tuttavia, in un incontro successivo con la stampa nello Studio Ovale, ha smentito pubblicamente l’intenzione, aggiungendo però che “non esclude nulla, a meno che non emerga un caso di frode”.
La questione ha riacceso il dibattito sull’indipendenza della Fed e sulle conseguenze economiche e istituzionali che una tale mossa potrebbe comportare.
Il contesto politico e istituzionale
Donald Trump è notoriamente imprevedibile nelle sue dichiarazioni pubbliche, e la sua storia politica è costellata di licenziamenti improvvisi preceduti da dichiarazioni di pieno sostegno. Jerome Powell non fa eccezione: da mesi è al centro delle critiche di Trump per non aver tagliato i tassi di interesse come richiesto dall’ex presidente. Peter Navarro, ex consigliere commerciale della Casa Bianca, ha rincarato la dose definendo Powell “il peggior presidente della Fed della storia”.
Due segnali che riducono i rischi
Due sviluppi recenti sembrano però limitare il rischio di un’escalation immediata:
1. Il ruolo della Corte Suprema
La Corte Suprema statunitense ha lasciato intendere che difficilmente riconoscerà al presidente degli Stati Uniti l’autorità di licenziare il capo della Fed per motivi puramente politici. L’unica possibilità legittima rimarrebbe una grave violazione etica o un caso di frode, ipotesi al momento del tutto residuale.
2. La pressione dei repubblicani del Senato
Diversi senatori repubblicani – anche vicini a Trump – hanno messo in guardia dal rischio di un’azione unilaterale contro Powell. Una mossa del genere, affermano, potrebbe provocare un’onda d’urto nei mercati, minare l’indipendenza della banca centrale e danneggiare la reputazione creditizia degli Stati Uniti.
Le parole del senatore John Kennedy
Il senatore John Kennedy ha dichiarato che, sebbene comprenda la frustrazione di Trump, abbassare i tassi di 300 punti base ora comporterebbe gravi conseguenze:
- Crollo del mercato azionario
- Salita dei rendimenti dei Treasury a 10 anni fino a 100 punti base
- Aumento del costo di emissione di nuovo debito
- Impatto diretto sul servizio del debito federale, già schiacciato da 36.000 miliardi di dollari di debito
Secondo Kennedy, una simile dinamica potrebbe paradossalmente allontanare la Fed dall’obiettivo di riduzione dei tassi, rendendo inefficace l’intento politico.
Il dilemma politico
Anche il presidente della Camera, Mike Johnson, ha dichiarato pubblicamente di non essere certo che Trump abbia il potere di licenziare Powell, aggiungendo ulteriori dubbi alla già controversa questione. Nel frattempo, analisti di mercato come Tobin Marcus e Chutong Zhu (Wolfe Research) avvertono che un’azione simile sarebbe un disastro annunciato: il rischio di svendite azionarie e impennate dei rendimenti obbligazionari sarebbe concreto.
Roger Altman, ex vicesegretario al Tesoro, è stato ancora più netto: “Ci sono tante cattive idee in circolazione, ma un presidente che prova a licenziare il capo della Fed è una delle peggiori.”
Conclusione
L’instabilità politica generata da simili minacce è sufficiente, di per sé, a condizionare le aspettative dei mercati e la politica monetaria futura. Per ora, Powell resta in carica. Ma la sua posizione – e l’indipendenza della banca centrale – continua a essere una delle variabili più delicate dello scenario economico USA per il secondo semestre 2025.
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